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In un recente arresto la Corte di Cassazione ha analizzato la questione del rapporto tra ordine di esibizione ex art. 210 del Codice di procedura civile ed il diritto di accesso di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003 (Codice privacy).

Con sentenza del 9 novembre 2016, il Tribunale di Brescia, pronunciandosi in un giudizio introdotto ex art. 9 ss., L. n. 898 del 1970, aveva condannato il signor V. al pagamento in favore dell'ex coniuge, B.G. (ai sensi dell'art. 12-bis della L. n. 898 cit.) della somma di euro 3.830,616 a titolo di percentuale del trattamento di fine rapporto maturato dopo la domanda di divorzio.

La Corte di appello adita confermava la sentenza di prime cure ritenendo infondata la censura con cui l'appellante contestava l'irritualità dell'ordine di esibizione rivolto ex art. 210 c.p.c. al proprio datore di lavoro per conoscere l'ammontare del T.F.R.

La Suprema Corte, con l'ordinanza in commento (Cassazione civile, sez. I, ordinanza, 24 febbraio 2021, n. 5068), dopo aver analizzato i motivi di ricorso affrontando la questione del rapporto tra ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. e diritto di accesso ex D.Lgs. n. 196/2003, ha rigettato le doglianze ritenendole infondate.

Per quanto di interessse con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione ed errata applicazione dell'art. 210 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. 

La Corte di appello, in accoglimento dell'ordine di esibizione del cedolino portante il T.F.R. liquidato dall'ultima datrice di lavoro, richiesto ex art. 210 c.p.c. dall'ex coniuge, aveva violato le regole di riparto dell'onere della prova esonerando la signora B. dal proprio. L'appellata avrebbe potuto far ricorso all'accesso agli atti ex D.Lgs. n. 196 del 2003, invece di instaurare un procedimento per modifica delle condizioni di divorzio e la sua mancata richiesta di autorizzazione al Garante della privacy avrebbe dovuto intendersi quale grave inerzia; il ricorrente d'altra parte non aveva mai rifiutato di esibire il cedolino, ma si era opposto al pagamento della quota calcolata sui due T.F.R., percepiti dalle società succedutesi nella veste di datore di lavoro, dichiarandosi invece disponibile a versare il minore importo pari al 40% del solo T.F.R. avuto dall'ultimo datore. Pertanto, anche la condanna alle spese nel primo grado di giudizio era ingiusta nella non necessità dell'ordine di esibizione.

La Suprema Corte, in via preliminare, afferma che la questione oggetto afferisce al rapporto tra due istituti: l'accesso ex D.Lgs. n. 196/2003 e l'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c..

La Corte di Cassazione precisa che «là dove l'istanza di esibizione avanzata da una parte ad un terzo ex art. 210 c.p.c. abbia ad oggetto un documento attestante l'ammontare del credito dalla prima vantato in giudizio, essa non ha natura esplorativa, essendovi certezza di percezione della componente reddituale da parte dell'avente diritto e, rilevante ed ammissibile, è strumento che meglio si concilia con la celere definizione della causa, senza involgere sostituzioni probatorie al di fuori dell'indagine giudiziale». 

 

 

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